Ospitiamo un post di Fabrizio Faraco, esperto di Marketing, soprattutto digitale per affrontare un tema caldo, cioè il rapporto tra adolescenti e tecnologia. Le opinioni del presente articolo sono quelle dell’autore. Mi riprometto di commentare l’articolo per fornirvi la mia opinione al riguardo.
“Sono abbastanza vecchio per sapere un sacco di cose, che nascono proprio dalla esperienza di vita. So che i giornali sono quelle cose dove si ottengono le notizie politiche e dove si cerca un lavoro. So che la musica viene acquistata nei negozi. So che se si vuole avere una conversazione con qualcuno, tu li chiami al telefono. So che le cose complicate come il software o le enciclopedie devono essere create da professionisti. Negli ultimi quindici anni, ho dovuto disimparare ognuna di queste cose, più un altro milione ancora, perché queste cose hanno smesso di essere vere.” (Clay Shirky “Here Comes Everybody”, 2008, p. 320-321)
Parliamo di teenager e social media. I teenager condividono sempre più informazioni e senza apparente attenzione a, e preoccupazione per, la loro privacy (maggiori informazioni sul fenomeno sono reperibili nello studio Teens, Social Media, and Privacy). Un tema controverso.
In un recente articolo sul tema il giornalista e blogger canadese Clive Thompson sostiene che la vita digitale degli adolescenti sia diventato il bersaglio di attacchi settimanali su tutti i media (e in ogni luogo dove ci sia un teenager e uno smartphone, cioè ovunque), e che contrariamente a ciò che sostengono molti, questi attacchi siano ingiustificati.
Attacchi sostenuti da vari intellettuali come il romanziere Jonathan Franzen, che in un recente saggio per il Guardian, ha lamentato che la socializzazione online stia creando un pensiero unico, superficiale e banale, rendendo i bambini incapaci di socializzare faccia a faccia. O il comico americano Louis CK, che ha proclamato in tv che non avrebbe dato alle sue figlie cellulari per paura che poi non sappiano sviluppare l’empatia. C’è anche l’avvertimento apocalittico della famosa scienziata e scrittrice Susan Greenfield: «Potremmo far crescere una generazione edonista che vive solo l’emozione del momento generata al computer e in pericolo di distaccarsi da ciò che il resto di noi considera il mondo reale».
Anch’io credo, come Clive Thompson, che i fatti e più profonde considerazioni smentiscano tali preoccupazioni, al di là, ovviamente dei rischi evidenti e che comunque hanno sempre accompagnato la crescita di una nuova generazione.
La ragione principale per cui credo che le previsioni apocalittiche non si avverino, e che anzi il mondo interconnesso, fatto di socialità, eccesso di texting, di condivisione visuale e perenne connessione sia migliore, nasce dal fatto che condividere e avere relazioni è alla base della nostra esistenza anche da prima che nascesse internet. Ci sono sempre piaciute le persone simili a noi, per questo cerchiamo le persone che abbiano in comune con noi le caratteristiche che amiamo.
La ragione non risiede, quindi, nella natura digitale o nella tecnologia (anche se la tecnologia ha reso possibile l’ampliamento della dimensione comunicativa tra gli individui e con le cose), ma nella necessità del genere umano di esser connesso. Essere connessi è un bisogno primario dell’individuo, è il bisogno di appartenenza e di essere riconosciuti. Graham Brown, Antrpologo inglese autore di «The anthropology of everyday» sostiene che siamo sociali per definizione! «We are social by design». Graham Brown sostiene che non si è schiavi della tecnologia ma di ciò che la tecnologia fa per noi «Non siamo schiavi della tecnologia, ma uno dell’altro, dello stare insieme. E quando non stiamo insieme la tecnologia ci aiuta a raccontare la nostra storia». Raccontare la nostra storia, questo ha sempre fatto l’essere umano per costruire relazioni e costruire fiducia reciproca. E sempre per raccontare storie ci si è appoggiati a strumenti sociali. Sempre Brown ne elenca 7 (le 7c):
- Caffe
- Abiti (Clothes)
- Cioccolato
- Calice (Cola)
- Fumo (Cigarette)
- Auto (Car)
- Cellulare
Il cibo è il re degli strumenti sociali. Pensate a quanto della nostra cultura è convogliato dal cibo. Eppure non ci sogneremmo neanche di pensare di abolirlo. Il diavolo, se vogliamo, si nasconde nell’abuso degli strumenti sociali, non negli strumenti in sé. Usiamo gli strumenti sociali per costruire la nostra identità e per raccontare la nostra storia e raccontare storie è il modo con cui creiamo relazioni e fiducia, perché per costruire una relazione dobbiamo aver costruito la fiducia. Raccontare rappresenta, quindi, il modo con cui forgiamo i significati e creiamo il contesto sociale, ovvero come ci relazioniamo con gli altri
Prendiamo ad esempio il comportamento online dei teenager più criticato: postare una propria fotografia (l’hashtag associato, #selfies, è stato il più usato del 2013). Graham Brown sostiene che siamo tutti nati col bisogno di essere connessi, e postare una foto di noi stessi altro non è che uno dei tanti modi di essere in connessione, anche quando questo può risultare inappropriato. Perché connettersi è più importante di essere appropriati, soprattutto per i teenager. Mostrare le foto di sé non è narcisismo, ma condividere un’esperienza. Di sicuro alimentano la vanita e la “prova sociale” (e ovviamente ci sono esagerazioni, come in ogni comportamento sociale), ma per troppo tempo la nostra società ci ha reso passivi, lasciando alla tv e alle agenzie pubblicitarie di raccontare di noi. E forse iniziata l’era in cui saremo noi stessi a raccontare le nostre storie. Un era che non piace ai media. L’umanità è stata sempre sospettosa delle nuove forme di espressione soprattutto se davano voce alla gente comune. Pensiamo all’impressionismo, considerato scandaloso a suo tempo solo perché descriveva persone normali fare cose normali.
Per queste motivazioni credo che i teenager non siano una generazione destinata all’atrofia delle relazioni, anzi. Credo che se vogliamo prevenire abusi e patologie dobbiamo semplicemente trovare storie in cui loro possano ritrovarcisi, perché tutto il senso dell’esperienza dei teenager è offline, ma questa generazione usa l’online per trovarlo. E questo è la sfida più grande per noi: catturare la loro attenzione.
Una sfida che stanno cercano di vincere i grandi marchi al fine di vendere prodotti ai teenager. Sfida difficile anche in questo caso perché “I teenager non acquistano in base al marchio, ma per ciò che il marchio fa per loro” (Graham Brown). “Il brand è una storia. Ma è una storia su di te, non sul brand. La nostra storia ci fa dire che «amiamo Google» o «che la Harley è il nostro amore» … ma cosa amiamo veramente? Amiamo noi stessi. Amiamo il ricordo che abbiamo di come quel marchio ci ha fatto sentire una volta. Ci piace che ci ricordi la nostra mamma, o il crescere, o il nostro primo bacio.” (Seth Godin “The brand is a story. But it’s a story about you, not about the brand”, 14 aprile 2013)
Fabrizio Faraco
Pingback: Adolescenti e Tecnologia | Mammaoltre
Pingback: iDiots | Il blog di Paolo Lucciola